Ecco perché un giudice terzo non può controllare gare, appalti e soprattutto cause di lavoro
Succede che la politica si perda in discussioni
marginali e che l'informazione cavalchi la demagogia. Succede soprattutto se si
parla di Autodichia, il principio grazie al quale Camera e Senato possono avere
massima libertà di manovra. Un giudice terzo infatti non può entrare né
a Montecitorio, né a Palazzo Madama: nessun controllo su bilanci, conti, gare
d'appalto, affitti e cause di lavoro. Però è stato deciso di tagliare gli
stipendi dei dipendenti. Attenzione, perché le due cose apparentemente sembrano
scollegate, ma non è così. Il taglio degli stipendi Da
gennaio è operativo il taglio degli stipendi dei dipendenti di Palazzo Madama.
Contenti Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella e con loro tanti lettori. Finalmente
tagliano ai ricchi. E' vero, una segretaria solo per il fatto di aver
vinto un concorso al Senato, può guadagnare dieci volte di più di una segretaria
di una pubblica amministrazione qualsiasi. Pur avendo le stesse mansioni. Eppure
le cose non stanno così.
Non per voler andare controcorrente a tutti i costi, ma a volte è necessario distogliere lo sguardo dal dito per guardare la luna. Il taglio degli stipendi per i dipendenti di Camera e Senato è stato deciso dai due uffici di presidenza, una decisione che i due rami del Parlamento hanno preso in assoluta indipendenza. Tanto per avere un'idea: per tagliare gli stipendi dei dirigenti della PA serve una legge, per tagliare quelli di Montecitorio e Palazzo Madama basta che si riuniscano 19 senatori (consiglio di presidenza) e 16 deputati (ufficio di presidenza). L'autodichia, in estrema sintesi ha consentito per la prima volta nella storia, un trattamento non migliorativo ma peggiorativo di un pubblico dipendente. Adesso però il problema non è il taglio degli stipendi, ma l'uso "randomico" del famoso principio.
Non per voler andare controcorrente a tutti i costi, ma a volte è necessario distogliere lo sguardo dal dito per guardare la luna. Il taglio degli stipendi per i dipendenti di Camera e Senato è stato deciso dai due uffici di presidenza, una decisione che i due rami del Parlamento hanno preso in assoluta indipendenza. Tanto per avere un'idea: per tagliare gli stipendi dei dirigenti della PA serve una legge, per tagliare quelli di Montecitorio e Palazzo Madama basta che si riuniscano 19 senatori (consiglio di presidenza) e 16 deputati (ufficio di presidenza). L'autodichia, in estrema sintesi ha consentito per la prima volta nella storia, un trattamento non migliorativo ma peggiorativo di un pubblico dipendente. Adesso però il problema non è il taglio degli stipendi, ma l'uso "randomico" del famoso principio.
L'articolo 64 della
Costituzione Si chiama Autodichia, la capacità di autodeterminazione
delle Camere, «il potere, conferito ad alcuni organi supremi dello Stato - si
legge sul sito della Camera - di giudicare presso di sé i ricorsi presentati
avverso gli atti d'amministrazione da essi medesimi posti in essere, in deroga
alle norme che disciplinano in via generale le competenze degli organi
giurisdizionali. Tale prerogativa, denominata anche giurisdizione domestica, è
riconosciuta, nel vigente ordinamento italiano ad alcuni organi costituzionali:
le Camere del parlamento e la Corte costituzionale». Alla base del principio, ci
sarebbe l'articolo 64, primo comma della Costituzione: «Ciascuna Camera adotta
il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi
componenti». Interpretazione molto controversa, perché per gli avversari
dell'autodichia, il principio sarebbe applicabile solo alla parte legislativa ma
non a quella amministrativa e quindi dovrebbe essere dato il via libera al
controllo dei bilanci e delle gare d'appalto di Camera e Senato. La
storia di Lorenzoni Un caso di demansionamento è accaduto in Senato
oltre dieci anni ad un geometra, P. Lorenzoni, fino a quel
momento utilmente impiegato alla revisione e controllo di alcune spese edili.
Controllando forse anche dove non doveva, il geometra fu spostato dai cantieri
dei Palazzi ad una stanza senza scrivania e lui, testardo, decise di non
rimanere in silenzio. Il risultato è che il Lorenzoni sono anni che contesta la
decisione dell'amministrazione di ridurlo a mansioni di dattilografo. Nel 2004
l'autodichia viveva il suo massimo fulgore, come dimostra la sentenza della Cassazione
14085/2004 e al geometra non restava che affidarsi al "giudice domestico",
ossia la commissione contenzioso e il Consiglio di garanzia (composto da
senatori, equamente distribuiti tra tutti i gruppi politici) il quale
nel 2006 riconobbe che era stato demansionato;
l'amministrazione del Senato però, non lo riportò nel suo posto
originario, limitandosi ad adempiere, ma solo in parte, all'obbligo
risarcitorio contenuto nel giudicato domestico. Il mancato reintegro nel posto
di lavoro originario quindi, spinse il Lorenzoni a fare ricorso ai giudici di
autodichia; nel frattempo però era cambiata legislatura e, come avviene nel
nostro strano ordinamento, la nuova composizione dei collegi e i nuovi senatori
del Consiglio di garanzia, dando una lettura molto riduttiva del deliberato dei
loro predecessori, respinsero il ricorso (documento 141 21 luglio 2011). La
questione si è quindi spostata a piazza Cavour avendo Lorenzoni presentato
ricorso in Cassazione sostenendo tematiche come la cattiva gestione delle
risorse umane di una pubblica amministrazione, con profili non secondari di
lesione dei diritti soggettivi all'immagine e alla qualificazione e crescita
personale. In estrema sintesi, quale la colpa del geometra? Avere contribuito ad
evidenziare ampi margini di recupero di risorse nella gestione dei lavori
affidati all'amministrazione.
Le pronunce da Ponzio a Pilato
Il fascicolo inizia così a peregrinare tra piazza Cavour e Consulta. A maggio
del 2013 Ordinanza
10400/2013, la Cassazione solleva questione di costituzionalità
sull'articolo del regolamento Senato che intesta al solo ordinamento interno lo
status del rapporto di lavoro dei dipendenti, sottraendolo in fase contenziosa,
al giudice esterno. Un anno dopo la Corte Costituzionale con sentenza
120/2014, dichiara inammissibile la questione sollevata dalla Cassazione,
affermando che quel tipo di questioni possono - se non altrimenti decise -
essere sottoposte a palazzo della Consulta solo nella forma di conflitto di
attribuzioni. Il 18 novembre scorso si è svolta l'udienza di riassunzione, nella
quale la Procura generale in via primaria ha invitato le sezioni unite a
radicare la giurisdizione, ma in camera di consiglio la Cassazione ha preferito
accogliere la proposta subordinata e rispedire la causa alla Corte
costituzionale sotto forma di conflitto di attribuzioni contro il Senato. La
Consulta è stata così investita per la seconda volta dalla Cassazione di un atto
che costituisce non solo diniego di giustizia, ma forse anche la riprova
dell'incapacità del sistema giurisdizionale italiano di dare una tutela efficace
alle ragioni del ricorrente. Ci sarebbe in pratica materia per la corte di
Strasburgo. Ma c'è di più, perché leggendo bene tra le righe dell'ultima
pronuncia, per Lorenzoni si prospetta anche la possibilità di far ricominciare
daccapo tutto il processo dinanzi ad un giudice civile di primo grado. In questo
caso al danno veramente si aggiungerebbe la beffa, visto che il ricorso era solo
per l'annullamento della decisione 141 dei giudici interni, sulla mancata
ottemperanza del giudizio precedente. Nelle stesse ore, sempre il 18 novembre
2014, la IV sezione del Consiglio di Stato depositava la sentenza
4618/2014 riguardante una gara di appalto della Presidenza della Repubblica
per l'apertura di uno sportello bancario all'interno del Palazzo. Contestata la
gara informale indetta, la Presidenza della Repubblica aveva invocato
l'autodichia, ma al di là dell'errore formale di quest'ultima che ha portato
alla decisione, i giudici di Palazzo Spada hanno messo nero su bianco «E'
indiscutibile che, nell'attuale assetto costituzionale, l'autodichia non sia
momento essenziale per assicurare effettività alla posizione di autonomia e
indipendenza degli organi costituzionali. Essa dunque esiste se e nella misura
in cui l'organo, sul necessario fondamento costituzionale (esplicito o, come
anche si sostiene, implicito), abbia deciso di farne uso».
Il mistero
del documento 141 e delle interrogazioni mancanti Il documento 141/2011
del Consiglio di garanzia non è pubblico, così come non lo è l'interrogazione
parlamentare presentata lo scorso anno dal senatore Enrico
Buemi, dove venivano messe in luce le assurdità della giurisprudenza
domestica con decisioni vistosamente contraddittorie. Mai arrivata agli atti. Il
senatore Enrico Buemi, subentrato a Ignazio Marino il 22 maggio 2013, esponente
del Partito socialista italiano, è il primo firmatario del disegno di legge che
chiede l'abolizione dell'autodichia e presentatore di una interrogazione
parlamentare sull'argomento. Piccolo particolare: il disegno di legge è
disponibile, l'interrogazione no. Buemi è intervenuto più di una volta
sull'argomento, denunciando anche silenzi e immobilismi. Una delle ultime
questioni sollevate da Buemi è stata quella delle nomine dei vertici di Palazzo
Madama e della tempistica della convocazione della seduta in cui sono state
effettuate. Grazie all'autodichia non sapremo mai se le nomine fatte a novembre
2014 dal Consiglio di Presidenza siano corrette oppure no (salvo poi andare a
leggere gli articoli di Sergio Rizzo sul Corriere riguardo parentele strane o
quelli del Fatto quotidiano sulle Lobby parlamentari che organizzano lezioni a
pagamento). "C'è una mia interrogazione, volta a sottolineare l'assoluta
irrazionalità della giustizia domestica che sottrae da un lato lo status dei
dipendenti alla disciplina generale del pubblico impiego e, dall'altro, le
forniture e gli affitti alla normativa appaltistica di fonte europea, ma non
viene neanche pubblicata". "Lo scorso anno ho presentato una
interrogazione al Governo per porre il problema dell'autodichia" ha
spiegato Buemi. "So benissimo che il governo nulla potrebbe a questo
proposito, ma volevo sollevare la questione (Gli atti di sindacato
ispettivo, infatti, possono essere rivolti solo al governo e non agli organi
interni, ndr). Non solo non ho ricevuto alcuna risposta, ma la mia
interrogazione non è mai arrivata al governo, non è mai stata pubblicata, per
questo ho anche scritto al presidente Piero Grasso". La
lettera da lui inviata però deve essere rimasta incastrata in qualche
cassetto, perché nulla è stato fatto e nessuna iniziativa è stata presa, anzi.
"C'è stata una dialettica tra me e il presidente Grasso che non ha avuto
conclusione" ha detto Buemi. Così, l'atto 141 rimane secretato e
l'interrogazione con lui. Allo stato attuale c'è solo il rimpallo tra
Cassazione, Parlamento e Corte costituzionale, dice ancora Buemi: "con
evidenti conflitti di interesse perché tutte e tre i Palazzi sono soggetti al
principio". Interrogazione e lettera al presidente Grasso, documenti mai
pubblicati, contengono passaggi di tutta la vicenda e spiegano bene quale
sarebbe l'impatto della cancellazione dell'autodichia. Dichiara ancora il
senatore: "Attualmente le false applicazioni del diritto, nel procedimento
legislativo, non possono essere sottoposti ad un giudice esterno, se si registra
una alterazione di un procedimento legislativo, va tutto al giudice interno.
Ora, nel procedimento legislativo è difficile togliere il principio, ma in
quello amministrativo si, perché in questo caso si opera come qualsiasi altra
pubblica amministrazione. Ci sono tanti motivi perché l'autodichia non
venga smontata, basta confrontare i prezzi delle forniture: una risma di carta
al ministero dell'Economia costa una cifra, al Senato costa il doppio..."
Altro che corsi di formazione tenuti dai lobbisti; per gare di appalto,
forniture e altro si scoperchierebbe il vaso di Pandora. Viene allora da
chiedersi: forse sul taglio degli stipendi non si sono sollevate questioni e non
solo per il vento dell'antipolitica? Diceva un vecchio senatore: "A pensare
male si fa peccato ma spesso ci si indovina".
L'appello al
presidente Mattarella Irene Testa, membro della
direzione di Radicali Italiani e coautrice con Alessandro
Gerardi del libro "Parlamento, zona franca - Lo scudo dell'Autodichia"
ha rivolto al neo presidente della Repubblica un appello: "Chiediamo al
nuovo Presidente, di imprimere una ventata di novità alla trattazione del
polveroso dossier dell'autodichia degli organi costituzionali. Una decisione
diversa, rispetto al passato, darebbe ingresso allo Stato di diritto anche per
una categoria di persone, sin qui trattata in maniera maggiordomale invece che
da cittadini. L'ordinanza n. 740/2015 della Corte di cassazione - si
legge nella richiesta - ha citato la Presidenza della Repubblica dinanzi alla
Corte costituzionale, per un conflitto tra poteri dello Stato: esso nasce
proprio dal precedente rifiuto del Quirinale di consentire alla Cassazione di
decidere - in terzo grado - sulle controversie di lavoro dei dipendenti del
Colle. Se Mattarella ritirasse l'eccezione di carenza di giurisdizione del
Giudice ordinario, il conflitto non avrebbe più luogo ed anche le parallele
vicende di Camera e Senato riceverebbero una linea di indirizzo assai
significativa". Del resto un candidato al Quirinale, diciamo suo diretto
avversario, se così si può dire, Giuliano Amato, più di una volta si era
dichiarato a favore dello smantellamento del principio (vedi sull'argomento Ddl
Boschi e le alternative). Il presidente Mattarella arriva dalla Corte
costituzionale, resta solo da vedere se vorrà mettere mano all'argomento. Occhi
puntati sul Quirinale più che mai.
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