mercoledì 26 novembre 2014

ALL’AULARIO DI SANTA MARIA CAPUA VETERE




di Irene Testa

Il corso di diritto costituzionale del professor Lorenzo Chieffi è famoso per le tematiche dei diritti civili, che lo porteranno a coordinare nel fine settimana - tra tutte le Università campane - un importante convegno sulla famiglia omosessuale. Eppure, il 24 novembre 2014, nell’aula C dell’Aulario di Santa Maria Capua Vetere, gli studenti della Seconda università di Napoli erano chiamati a studiare due sentenze della più recente giurisprudenza costituzionale in tema di procedimento legislativo ed istituzioni parlamentari: la “sentenza Amato” (n. 120/2014, sull’autodichia) e la “sentenza Cartabia” (n. 32/2014, sui limiti di omogeneità in ordine all’emendabilità dei disegni di legge di conversione dei decreti-legge).

Il docente ha chiamato a commentare le due sentenze, offrendo il suo contributo di esperienza, il consigliere parlamentare Giampiero Buonomo, che ha presentato le sue riflessioni sui regolamenti parlamentari “fonti dell’ordinamento generale della Repubblica”.  L’utilizzo dello strumento conflittistico era stato indicato per la prima volta, dalla Corte costituzionale, nel 1996 in ambito di diritto parlamentare: quella sentenza, firmata dal professor Mezzanotte, era stata per la prima volta invocata proprio dal Buonomo nel 1998 per fissare il confine tra i poteri costituzionali che rivendicano l’autodichia.
La “sentenza Amato” rappresenta la conferma della validità scientifica di quella riflessione, per cui è comprensibile che, dopo Pisa, anche la SUN abbia chiamato il suo autore a condividerla con i suoi corregionari.
Il conflitto tra poteri, noi radicali, l’abbiamo agitato – come rischio da prevenire – quando abbiamo invocato una precisa assunzione di responsabilità della politica: la nostra proposta di legge, a firma di Rita Bernardini, partiva proprio da chi quella riflessione aveva condiviso (vedasi il disegno di legge a firma Maritati e Leddi della XVI legislatura). Ma né il nostro disegno di legge, né il nostro pamphlet contro l’autodichia (Parlamento zona franca, edito da Rubbettino nel 2013) sono bastati a mobilitare il Parlamento contro questo rudere giuridico detto “autodichia”, che evidentemente nasconde interessi forti e consolidati (di cui i dipendenti di Camera e Senato sono soltanto un utile pretesto). È servito il caso di demansionamento, portato in Corte di cassazione prima e Corte costituzionale poi, per provocare la “supplenza” del potere giudiziario: un caso, a dispetto di chi parla di soldi, che attiene ai diritti inalienabili della personalità e che risale al lontano 2003.
L’inidoneità dell’autodichia a porvi rimedio è la dimostrazione della sua estraneità alla “grande regola dello Stato di diritto”: le conseguenze di questo istituto giuridico sono state severamente criticate dall’oratore, che ha anche paventato il rischio che ne derivi una progressiva delegittimazione pubblica delle Istituzioni rappresentative. Quando il professor Chieffi ha ricordato che l’autodichia comporta commoda ed incommoda, ha reagito appellandosi al velo dell’ignoranza che la valutazione scientifica richiede. 
Anche dopo la penalizzazione di carriera subìta, evidentemente chi appartiene all’ultima pubblica amministrazione di livello segue ancora il precetto anglosassone “my country, right or wrong”, per cui sarebbe inutile chiedergli un commento, sul punto. Non ci resta che ridarci appuntamento al deposito della sentenza delle sezioni unite civili della Cassazione sul caso Lorenzoni: lì parleranno gli atti scritti. (IT)

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