mercoledì 12 novembre 2014

AUTODICHIA ED AUTOCRINIA DEGLI ORGANI COSTITUZIONALI

Seminario del corso di dottorato di ricerca 
in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale 
e diritti fondamentali, 
Curriculum italo-franco-spagnolo 
in Giustizia costituzionale 

Pisa, 12 novembre 2014, ore 10
Via del Collegio Ricci, n. 10, Sala verde
Università di Pisa



AUTODICHIA ED AUTOCRINIA 
DEGLI ORGANI COSTITUZIONALI

Intervento del consigliere G. Buonomo

Vorrei innanzi tutto ringraziare l'Amministrazione del Senato che, pur essendo pubbliche le mie opinioni, ha espresso il suo nulla osta alla mia allocuzione in questa sede. Al contempo, ringrazio colui che ha convenuto in giudizio la medesima Amministrazione, che ha accettato di arricchire il mio apparato conoscitivo in ordine alle memorie di causa.
L'autodichia delle Camere è frutto del più classico dei paralogismi: si dice che c'è da secoli e si dice che non potrebbe non esserci, violando il criterio popperiano di falsificabilità. In fatto, poi, lo studio approfondito di diritto comparato sincronico, condotto dalla Corte costituzionale, dimostra che l'affermazione è infondata.
Quanto al diritto comparato diacronico, la sentenza del 2010 della Corte suprema del Regno Unito, sul caso Chaytor, ha dimostrato attingendo ad una corretta ricostruzione dei precedenti anglosassoni che né sotto il profilo immunitario, né sotto quello della "cognizione esclusiva", si può ricavare una sottrazione degli atti extrafunzionali dalla competenza giurisdizionale ordinaria.

Giova ricordare che, fino al 1985, era all'articolo 68 (o, in subordine, articolo 66) Cost. che si faceva capo per radicare la sottrazione delle Camere alla giurisdizione "esterna". Nel più classico dei paradossi di questa singolare vicenda giuridica, il capovolgimento apportato alla questione dalla sentenza Ferrari radicò l'istituto sull'articolo 64 Cost.: proprio come in Inghilterra, l'insufficienza dello scudo immunitario (neppure nella latitudine consuetudinaria dell'immunità di sede) fece propendere per un fondamento giuspositivo-competenziale, derivante dalla natura riservata (o comunque sovraprimaria) della fonte regolamentare interna.
Due controindicazioni, rispetto a questa concezione, erano bellamente ignorate: la prima, secondo cui il regolamento non è la raccolta delle "regole della casa" di una Corte medievale, come il caso Chaytor ha dimostrato, ma una delega di poteri normativi esclusivi in ambiti tipici ben definiti, coincidenti con le funzioni dell'Organo costituzionale. La seconda (rilevata dalla Cassazione nelle sue sentenze sul Quirinale) è che ci sono Organi costituzionali che l'autodichia cel'hanno, ma consacrata in Legge ordinaria, per cui i margini di una concezione non funzionalista sono assai più stretti, consentendo di affrontare la questione con estrema prudenza.
Quella che definisco la "concezione geografica" dell'autodichia, quindi, riguarda essenzialmente gli apparati amministrativi delle due Camere. Questo perché la normazione "a cascata" dei due Regolamenti maggiori ha portato a ritenere che ci si potesse "appropriare" di qualunque ambito dell'universo giuridico - ma anche della vita di relazione di coloro che all'interno del pomerio parlamentare operano - semplicemente emanando una normativa interna. Questo vale innanzi tutto per le due giurisdizioni interne, che si sono viste attribuire competenza nella materia appaltistica nel 1998 e nel 2005, ma non soltanto.
Questo vale, a maggior ragione, per un portato della tesi della "cognizione esclusiva" che non è mai stato sostenuto nemmeno a Londra. Si tratta non dell'autodichia, ma dell'autocrinia.
Come vi sono cellule che secernono direttamente gli alimenti che le nutrono, così la tesi della cognizione esclusiva comporta che le Camere possano decidere da sole a quale porzione dell'ordinamento giuridico dare ingresso al loro interno. Si tratta di un nutrimento che si va trasformando in un veleno. 
Quando un vice-Presidente della Camera vede convenienza nell'autodichia perché consentirebbe di disciplinare le lobbies con atti interni, evitando la complessa e defatigante procedura legislativa, non ci si rende conto che i due strumenti - legge e delibera dell'Ufficio di Presidenza - non sono atti fungibili. Non solo per il diverso grado di pubblicità, ovviamente. Sollecitare un dibattito pubblico, chiedere mandato all'elettorato e lasciarsene giudicare si può, se entra nel dedotto dell'attività propria del rappresentante eletto; se così non è, si opera con un'opacità sospetta (vedasi la relazione pubblicata all'ultimo congresso di Chianciano dei Radicali italiani), suscettibile di strumentalizzazioni che non fanno bene al Parlamento (vedasi la facilità con cui è stata "cavalcata" la questione retributiva) e che sarebbe interesse del Parlamento dissipare.
Badate bene che l'esistenza dei giudici domestici non è un male in sé: dipende come viene esercitata la funzione. Nella vicenda che ha occupato la Corte costituzionale tra il marzo ed il maggio 2014, non va dimenticato che c'è già un giudicato, emanato proprio dagli organi di autodichia: essi hanno riconosciuto il buon diritto del ricorrente demansionato, con attribuzione iussu iudicis di un ruolo amministrativo e con la condanna dell'amministrazione a reintegrarlo nel settore di provenienza, nel quale ristorare la sua professionalità specifica lesa. È quando l'Amministrazione non ha adempiuto, sollecitando da altri giudici domestici un diverso esito nel giudizio di ottemperanza, che sono sorti i problemi.
Il vero veleno è l'autocrinia. Quando si dichiarò che il Regolamento legittimava un'indipendenza guarentigiata, si diede a vedere che esso proiettava sull'ordinamento interno delle Camere una luce direttamente emanata dalla Costituzione.  Il testo del Drewry-Oliver già tredici anni prima della sentenza Chaytor esprimeva fortissimi dubbi sulla giurisprudenza Graham-Campbell, ma andrebbe anche detto che quella discussa sentenza degli anni Trenta - nel mentre sottraeva la buvette di Westminster dalla legge sugli spacci di alcolici - consentiva invece alla legge ordinaria di disporre su attività extrafunzionali che avessero luogo nel recinto parlamentare: in altri termini, solo nel silenzio della legge suppliva l'autocrinia parlamentare. 
Che la sovranità del Parlamento sia geografica o che sia funzionale, in Inghilterra basta una legge ordinaria a derogarvi, trattandosi di un ordinamento a Costituzione non scritta flessibile. Da noi, invece, il fatto che si versi un regime di Costituzione scritta rigida produce, coll'innesto dell'autocrinia, un corto circuito pazzesco: a pagina 78 del Testa-Gerardi si legge il parere di una Commissione parlamentare filtro in cui - "anche con riferimento alle spese di natura amministrativa e per il personale" - le "fonti proprie dell'autonomia degli organi costituzionali" sono citate prima della legge ordinaria, in una sequenza gerarchica che non ammette delimitazioni di tipo funzionalistico.
In questo, occorre dire che la giurisprudenza della carenza di giurisdizione ha dato il peggio di sé: TAR che hanno dichiarato funzionale all'attività parlamentare la gara d'appalto per il ristorante dei senatori; giudici del lavoro che hanno declinato giurisdizione su cause di lavoro di gabinettisti; Garanti della privacy che hanno respinto doglianze sull'indicizzazione di nominativi nelle banche dati generalistiche del server parlamentare.
Qui il cerchio si chiude, ritornando all'autodichia nel modo peggiore: la comica rivendicazione, giustamente stroncata da Antonello Lo Calzo, delle difese delle due Camere in ordine alla possibilità di svolgere esse da sole, nei loro organi domestici, quel controllo decentrato di costituzionalità, per la cui difesa ultima vana De Nicola si dimise nel 1957 (e che da allora nessuno mai ha più invocato, né alcuno - fino al 27 marzo 2014 - ha mai in dubbio la natura accentrata del sindacato di costituzionalità, rivendicata ancora meno di un mese fa dalla sentenza n. 238).
La sentenza n. 120 scardina tutto questo, da un lato perché non parla affatto di legge costituzionale, quando contente alla possibilità che l'autodichia sia legislativamente abrogata, e dall'altro perché indirizza il suo futuro scrutinio - laddove adita nella forma corretta - ad una tesi rigorosamente funzionalistica: è per questo che essa va salutata con favore. 


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