martedì 26 luglio 2016

“Riforma costituzionale? Un’occasione persa, parola di funzionario del Senato”

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“Riforma costituzionale? Un’occasione persa, parola di funzionario del Senato” di Gabriele Maestri su termometropolitico.it 

riforma senato

In questi mesi che precedono il referendum confermativo della riforma costituzionale, in molti stanno rendendo pubblica la loro intenzione di voto: politici ovviamente, ma anche giuristi, imprenditori, personaggi noti. Era sostanzialmente mancata, invece, la voce di una categoria direttamente investita dalla riforma: i funzionari di quel Senato che cambierà volto, ma per il quale continueranno a lavorare. Uno di loro, Giampiero Buonomo, consigliere parlamentare, entrato per concorso al Senato trent’anni fa, si è nettamente schierato contro la riforma, partecipando con un contributo al volume No allo sfregio della Costituzione (Licosia edizioni).
Facile pensare, probabilmente, che la posizione sia dettata da “istinti di conservazione” del posto di lavoro; è lo stesso Buonomo, tuttavia, a spiegare che il suo “no” è motivato, più che dal contenuto della riforma, da quello che non c’è. Il testo approvato dalle Camere – a suo dire – non fa l’unica cosa che sarebbe servita davvero per mettere sotto controllo i costi della macchina parlamentare: non interviene cioè sull’autodichia e su quegli istituti che, nei fatti, non sottopongono l’operato dell’amministrazione parlamentare al controllo dei giudici (e della Corte dei conti). Per Buonomo, che da anni studia e si batte per un cambio di rotta sull’amministrazione delle Camere, il non avere compiuto questo passo nella riforma (a dispetto di qualche tentativo socialista) è un’occasione persa.
Giampiero Buonomo
Buonomo, nel libro al quale partecipa lei sostiene apertamente il “no” al referendum su una legge di revisione costituzionale che interviene profondamente sull’istituzione del Senato, presso cui lei lavora da trent’anni. Non c’è rischio che qualcuno legga la sua scelta come quella di un giudice in causa propria?
Ci sono due livelli di risposta. Uno è formale: da quando il testo approvato della riforma è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 15 aprile scorso, a farsi un’idea e prendere posizione sono chiamati tutti i cittadini, quindi anche per i dipendenti degli organi costituzionali come me. Poi c’è un livello sostanziale, al quale non voglio sottrarmi: proprio aver lavorato per trent’anni in Senato mi induce a ritenere che il testo non soddisfa il movente più profondo del movimento d’opinione, che il Governo ha scelto di cavalcare quando ha proposto un testo che reca, nel titolo, le parole “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”.
Intende dire che la riforma non interviene minimamente su questo?
Non solo non si è colta questa splendida occasione per farlo, ma vi sono molteplici elementi che dimostrano che non lo si è voluto fare. Si mantiene l’autodichia; anzi, in qualche modo si rischia di confermarla, con una norma espressa di rango costituzionale.
Come si può spiegare a un profano l’autodichia?
Potremmo dire che riguarda il backstage, “quello che c’è dietro”, ossia l’attività amministrativa legata alle Camere, la loro attività “servente”, di supporto. Fino a quando i radicali non hanno intrapreso la benemerita campagna NoAutodichia di Irene Testa, era un ambito totalmente sconosciuto al grande pubblico. Io stesso, prima di intraprendere vent’anni fa la breve ma intensa esperienza di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza sul lavoro, ne ero assolutamente all’oscuro. Ma proprio i guasti causati dall’autodichia, invece, sono tra i filoni, utilizzati a livello mediatico, per predicare l’urgenza di una revisione costituzionale.
irene testa
Irene Testa, a destra, con Rita Bernardini
In che senso?
L’intensa campagna antipolitica di discredito delle istituzioni rappresentative, da tempo in atto, spesso ha usato come argomenti anche certe peculiarità di spesa, di procedura, di trattamento che non nascono dalla volontà del parlamentare, ma da meccanismi amministrativi, avulsi dal principio di legalità come lo conosciamo dai tempi di Montesquieu. Sono meccanismi autonomi, in ossequio a un “feticcio” che si dice essere fondato sulla Costituzione (cosa che io contesto): quello secondo cui la legge, a Palazzo, entra soltanto quando il Palazzo vuole che entri. E questo feticcio fa sì che la gente ogni volta si stupisca di certi trattamenti, procedure e situazioni che “fuori” non esistono: quel che accade ancora in Parlamento non accade nelle Ausl, all’Agenzia delle entrate, alla Banca d’Italia. C’è chi pensa di risolvere il problema abolendo una Camera o, come fa questa riforma, intervenendo marcatamente su un ramo del Parlamento: in realtà il meccanismo si riproduce, perché riguarda tutti gli organi costituzionali. Tutti gli organi supremi, diversi dall’Esecutivo, hanno autonomia normativa e la declinano secondo una concezione meramente “geografica”: attingo questo termine dalla relazione del primo coraggioso disegno di legge sulla materia, quello presentato nel 2009 dal senatore Maritati.
Mi perdoni, ma di solito, quando si parla di “autodichia”, ci si riferisce alla “giurisdizione domestica”, per cui il contenzioso che riguarda i rapporti di lavoro dei dipendenti delle Camere (e agli altri organi costituzionali) non è deciso dalla magistratura, ma da soggetti interni. La sua nozione di autodichia sembra molto più ampia…
Guardi, non è mia: la traggo da tutta quella serie di articoli e di libri che, da dieci o quindici anni a questa parte, quando vogliono spiegare al cittadino le anomalie dei Palazzi della politica, usano appunto la parola “autodichia”. Anch’io, come lei, salto sulla sedia leggendo questi articoli; la mia idea di autodichia è la stessa che ha dato lei, cioè una (oramai superata) sottrazione alla giurisdizione di dipendenti ed appalti. Eppure, a quanto pare, essa proietta un’ombra su una diversa situazione – che tecnicamente era stata ribattezzata “autocrinìa” – quella secondo cui la legge viene fatta nello stesso Palazzo in cui viene applicata; questa normativa interna può coincidere con quella valida all’esterno oppure no, o solo in parte: lo decide in totale autonomia l’Ufficio di Presidenza di ciascuna Camera (o l’organo responsabile degli altri organi costituzionali). Tutto questo, nella polemica pubblica, è diventato “il problema dell’autodichia”: se così è, propongo di fare tabula rasa di tutto ciò che è anomalia rispetto allo stato di legalità, con le debite discipline transitorie che andranno ovviamente approvate per legge. Così avremo risolto il problema del discredito delle istituzioni rappresentative, ottenendo di più di quanto non si farebbe togliendo più di 200 senatori.
Cosa sarebbe stato necessario per fare questo? Qualche colpo di matita del Parlamento per cancellare alcune disposizioni costituzionali?
Eh, magari!… Il fatto è che l’autodichia, così ampiamente intesa, non è contenuta nella Costituzione, dunque è difficile cancellare qualcosa che non c’è. Di fatto l’istituto è nato essenzialmente sul piano giurisprudenziale: al momento pende un contenzioso davanti alla Corte costituzionale, nato da una vicenda relativa al Senato. Certamente non ha aiutato il fatto che certi emendamenti che si ponevano in contrasto con l’autodichia non siano stati nemmeno discussi o che ne siano passati altri che, in qualche modo, hanno rilegittimato quell’istituto: così non si fa nessun passo avanti per eliminare le anomalie e disinnescare le polemiche.
Enrico Buemi
Un tentativo di superare l’autodichia dunque era stato fatto durante la discussione delle riforme?
Sì, erano stati presentati alcuni emendamenti da senatori del Psi, a prima firma Buemi. Di fatto vi si prevedeva che gli atti che in qualche modo riguardavano il personale “degli organi costituzionali, di rilevanza costituzionale e delle autorità indipendenti” fossero pienamente ricorribili davanti all’autorità giudiziaria, ordinaria o amministrativa, perché valutasse la loro legittimità o liceità: ciò avveniva estendendo esplicitamente a queste fattispecie il contenuto dell’articolo 113 della Costituzione. Il tutto, tra l’altro, valeva anche genericamente per i rapporti instaurati “con i terzi che vengano in relazione con le amministrazioni delle Camere”, quindi le ditte che su appalto lavorano per il Parlamento.
Che fine hanno fatto quegli emendamenti?
Uno ha ricevuto parere contrario di Relatore e Governo, l’altro è stato dichiarato inammissibile. Un battito di ciglia nel profluvio del dibattito sulla riforma; eppure, sebbene la parola “autodichia” non sia mai stata pronunciata, quelle furono le pochissime occasioni in cui in Senato se ne è parlato, prima che il tabù cadesse il 20 luglio di quest’anno: ciò grazie alla senatrice Questore Bottici, il cui intervento, per il Movimento 5 stelle, è stato decisamente contrario alla difesa dell’autodichia in Corte costituzionale…
Quindi, l’emendamento non è nemmeno arrivato al voto, ma lei prima parlava di altre modifiche che hanno rilegittimato l’autodichia: di cosa parla?
Prenda l’ultimo periodo dell’articolo 40, comma 3, lo stesso testo, tra l’altro, su cui voleva intervenire Buemi: l’articolo contiene le disposizioni finali, che come tali hanno avuto meno attenzione dai media ma hanno molta importanza. Si legge “Restano validi ad ogni effetto i rapporti giuridici, attivi e passivi, instaurati anche con i terzi”. Questa disposizione, introdotta in Commissione, in effetti era nata solo per salvare i rapporti con il Senato attualmente in funzione, perché in quel momento di fatto si pensava ancora alla nascita di un nuovo organo, il Senato delle Autonomie: non a caso, il primo testo dell’emendamento 34.26 a firma Sposetti diceva che “Il Senato delle Autonomie subentra al Senato della Repubblica in tutti i rapporti attivi e passivi con i dipendenti e con i terzi”.
Una cosa ragionevole…
Già, ma quando la nuova denominazione è caduta e non ci sarebbe stato più bisogno di salvare i rapporti giuridici visto che l’organo era lo stesso, il testo non è sparito, anzi: l’emendamento 34.26 è stato riformulato (e condiviso da altri senatori di varie forze politiche) ed ha assunto il testo poi approvato. Il fatto è che, secondo me, “restano validi” è più impegnativo di “subentra in tutti i rapporti”: potrei sbagliare, ma credo che possa significare che nessun giudice può contestarne la validità, tanto più che a disporlo è una legge costituzionale. Se così fosse, tutti i rapporti attivi e passivi nei confronti delle Camere sarebbero del tutto inattaccabili, da ogni punto di vista: almeno, questo è il dubbio che ha sollevato per primo l’avvocato Felice Besostri, il cui acume giuridico si è esercitato con successo nell’affossamento del Porcellum.
elezioni europee felice besostri
Cosa comporterebbe questo?
A qualcuno la frase può sembrare un granello di sabbia, una cosa di poco conto che riguarda un migliaio di persone. In realtà, nell’ottica dell’autodichia quel sassolino è la punta di una sorta di piramide capovolta, regge l’intero ordinamento delle Camere e tutto ciò che le riguarda, compresa l’esenzione dalla giurisdizione contabile della Corte dei Conti, le gare d’appalto … tutto ciò che è in deroga, insomma, e che spesso fa gridare allo scandalo per quello che si legge su libri e giornali.
Ovviamente qui non ci si riferisce minimamente a ciò che avviene all’interno delle aule parlamentari…
Assolutamente no, la sentenza 120 del 2014 è stata molto chiara su questo: ciò che è in funzione dell’attività propria delle Camere è assolutamente inattaccabile. Ciò che invece non è in funzione di essa, ma equivale all’attività svolta da qualunque altra pubblica amministrazione, non si vede perché debba essere schermato: anzi, non si vede perché, paradossalmente, non possa godere del ” vantaggio” di essere sottoposto al sindacato, al controllo di un giudice terzo. Ogni esercizio di potere comporta una responsabilità e viceversa: togliere a chi ne è titolare la possibilità di essere chiamato a rispondere di esso, significa che questo potere è un po’ più libero degli altri e troppo spesso il confine tra libertà e arbitrio è labile.
In sostanza, la riforma lascia comunque sempre al buon cuore di chi rappresenta le Camere, e di chi vi lavora all’interno, l’aderenza a principi validi nella pubblica amministrazione, a partire dalla trasparenza?
Esatto. Uno dei cavalli di battaglia di chi sostiene questa riforma è l’idea di portare un parlamentarismo bolso e antiquato nel XXI secolo: da questo punto di vista, non essere intervenuti sull’autodichia o non averci seriamente provato è secondo me una grave occasione persa.
NO-sfregio-Costituzione
Si parla e si discute molto dei risparmi legati alla riforma, c’è chi parla di svariati milioni di economie…
Non intendo minimamente entrare in questa disputa sui numeri. Mi limito a considerare che quei numeri sono legati a una procedura di spesa sostanzialmente priva di scrutinio giurisdizionale da parte della magistratura contabile. Allo stesso modo, sfugge al controllo del giudice ordinario o amministrativo l’attività amministrativa degli organi serventi delle Camere: questo ha una ricaduta in termini di delegittimazione delle istituzioni rappresentative, oltre che indirettamente anche sulla spesa pubblica.
Al di là di stime sui numeri, quanto sarebbe stato e sarebbe importante introdurre anche in Parlamento principi che valgono in tutte le altre amministrazioni?
Credo sia l’unica garanzia possibile. Se si ammette che la nostra Seconda Repubblica è nata da una “rivoluzione giudiziaria”, l’unica reale garanzia oggi sembrano essere i giudici. Un giudice esterno può garantire che – se ci sono stati un demansionamento, un appalto mal aggiudicato o una spesa incongrua – questi siano riconosciuti e si decida di conseguenza; il giudice interno probabilmente arriverebbe alle stesse conclusioni, ma certamente, nel nostro tempo, una decisione del genere richiede il crisma che, agli occhi degli esterni, deriva dall’indipendenza.
E, sempre restando in tema di “costi della politica”, il taglio ai senatori finirebbe per incidere anche sul personale “tecnico” del Senato, dunque su voi funzionari?
Nella polemica degli ultimi anni si è ascritto a costo della politica anche quello che tale non è: il personale vincitore di concorso è stato equiparato al personale fiduciario, come i “portaborse” e gli altri soggetti che lavorano per i parlamentari e i gruppi. In realtà le garanzie dei dipendenti pubblici, sono fondate sulla Costituzione, sul sistema utilizzato per sceglierli, che ai sensi dell’articolo 97 è il concorso pubblico. Personalmente io non mi sento un “rapporto attivo o passivo”, che per restare valido ha bisogno di una frase in un articolo 40 infilato in una revisione costituzionale. Nessuno si è mai posto il problema della scardinabilità dei rapporti di lavoro di diritto pubblico: non vedo perché dovrebbe porsi adesso, quando si prefigurano nuove e più qualificate funzioni per il Senato di domani e, chissà, anche per quello di dopodomani…

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