Lettera di commento all'articolo La follia dell’autodichìa di Beniamino Piccone del 19 ottobre 2015
Gentile professor Piccone,
Le siamo grati di aver dato
visibilità, sul Suo blog ("La
follia dell’autodichìa", 19 ottobre 2015), alla battaglia con
cui è stata portata "in Corte Costituzionale la questione di uno dei più
arcaici privilegi, di stampo monarchico, che vige ormai unicamente al mondo
presso gli organi costituzionali nel nostro Paese", l'autodichia. I
radicali sono parte non secondaria di questa battaglia, da quando il ricorrente
perse i suoi avvocati per aver depositato in Cassazione un gruppo di disegni di
legge, tra cui quello proposto da Rita Bernardini nella scorsa legislatura.
Forti di questa primazia, vorremmo però invitarla a non cadere nel vizio
metodologico con cui spesso questa complessa questione viene affrontata.
C'è chi depreca l'autodichia perché
consente retribuzioni fuori mercato per un migliaio di dipendenti pubblici, ma
poi la invoca per impedire loro di ricorrere contro il taglio extra-legale
delle predette retribuzioni. C'è chi depreca l'autodichia perché le Camere
hanno accordato "in house" il retributivo ai vitalizi degli ex
parlamentari, ma poi la invoca per revocare i predetti ai condannati con una
semplice delibera dell'Ufficio di Presidenza. C'è chi depreca l'autodichia
perché consente di tenere portaborsi sottopagati al nero senza versamenti
contributivi, ma poi lascia la nostra Bonino da sola a votare a favore
dell'accesso degli Ispettori del lavoro in Senato. C'è chi depreca l'autodichia
perché consente l'accesso ai lobbisti ai Palazzi senza un registro pubblico, ma
poi la invoca quando uno di loro viene escluso dai palazzi senza possibilità di
ricorrere al giudice contro l'esclusione. C'è chi depreca l'autodichia perché
il riparto dei tempi per l'accesso ai mezzi radiotelevisivi è deciso
politicamente da una Commissione bicamerale, ma poi la invoca quando i radicali
esclusi ricorrono al TAR contro il riparto. C'è chi depreca l'autodichia perché
le nomine alle Authoritiesvengono fatte in Parlamento senza curriculum
pubblici depositati, ma poi la invoca quando qualcuno ricorre alla Corte
d'appello contro la carenza di titoli del nominato.
Questo avviene perché l'autodichia è
una procedura, più che un privilegio: essa sottrae al giudice la possibilità di
rivalutare atti che avvengono all'interno dei Palazzi del potere. Noi abbiamo
proposto che questa sottrazione si limitasse agli atti della funzione
dell'organo costituzionale (per il Parlamento, fare leggi o emendamenti e
svolgere interrogazioni), dando invece libero accesso allo Stato di diritto
quando si agisce come una qualsiasi altra pubblica amministrazione. Vediamo che
la sentenza n. 120 del 2014 ha iniziato ad affacciare questo concetto, e siamo
fiduciosi che la battaglia di Piero porterà ad una piena affermazione dello
Stato di diritto nella gestione amministrativa dei palazzi del potere.
Come per tutte le procedure,
potranno giovare ora all'una, ora all'altra parte: ottima occasione per
risistemare l'intera materia con una legge, pessima occasione per
ridimensionare in termini di "voracità" le giuste doglianze degli
interessati. Spezzare il circolo vizioso dell'autodichia si può, a costo di
approcciarsi ad essa con onestà intellettuale: quella che a Lei, siamo certi,
non mancherà, dando pubblicità sul Suo blog alla presente lettera.
Con i migliori saluti
Irene Testa, Coautrice insieme ad
Alessandro Gerardi del libro Parlamento zona franca, lo Scudo dell'Autodichia
Maurizio Turco, già parlamentare
Radicale e membro della Commissione Affari Costituzionali della Camera