mercoledì 19 novembre 2014

Autodichia. Un'udienza storica


Autodichia. Un'udienza storica
L'udienza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, il 18 novembre 2014 nell'aula magna al secondo piano del Palazzaccio, ha avuto lo svolgimento pacato e meditato delle occasioni che fanno la storia del diritto.
La causa numero 5 al ruolo d'udienza, Lorenzoni contro Senato della Repubblica, ha avuto inizio con la relazione del cons. Amoroso, che ha ricordato le precedenti fasi di causa sia in termini di giustizia domestica, sia in termini di rito in Cassazione, fino alla rimessione alla Corte costituzionale ed all'emanazione della sentenza n. 120.
Ha quindi avuto la parola il difensore del ricorrente, l'avvocato A. Sandulli, che ha sottolineato la natura della sentenza n. 120 come vero e proprio mutamento di prospettiva nel valutare la questione dei regolamenti parlamentari, secondo i parametri della delimitazione tra i poteri: l'autodichia diventa così materia attinente al rispetto o meno del confine perchè, se si estende oltre gli ambiti funzionali allo svolgimento dell'attività parlamentare, perde la sua legittimazione perchè in tal caso prevale la grande regola dello Stato di diritto ed il regolamento parlamentare diventa fonte di atti lesivi nei confronti del potere giurisdizionale. Spetta al Collegio qui convocato valutare se i rapporti di lavoro dei dipendenti rientrino o meno in questo confine, ma ben due argomenti enunciati dalla sentenza n. 120 fanno propendere per questa conclusione: quello comparativo e quello funzionale; inoltre il Collegio ha espresso la sua posizione, nel medesimo senso, già nell'ordinanza n. 10400. C'è quindi margine per procedere direttamente alla cognizione dei motivi di impugnazione della sentenza domestica di ottemperanza, che disattendeva un giudicato formato e l'obbligo di esecuzione secondo trasparenza e buona fede, gravante sull'Amministrazione del Senato. Per questi motivi si richiede di decidere direttamente nel merito, assumendo pronuncia costitutiva di annullamento della sentenza impugnata e di condannare il Senato a riesercitare i propri poteri con atti immuni dai vizi denunciati.

È allora intervenuto l'avvocato dello Stato F. Basilica, a nome del Senato della Repubblica: sarebbe a suo avviso fuorviante leggere la sentenza n. 120 in guisa diversa da una vittoria del Senato, che - in continuità con oltre mezzo secolo - ha ottenuto l'affermazione dell'essenzialità dell'autodichia rispetto all'esercizio delle proprie funzioni (alla stregua di quella che esercitano, verso i propri dipendenti, le organizzazioni internazionali). Il quid novi è solo l'affermazione che, se esercitato male in concreto, quel potere è sindacabile dalla Corte costituzionale. Ma qui fu esercitato benissimo, perché il ricorrente, vincitore nel processo di merito, in ottemperanza si sarebbe visto dare torto - su un'interpretazione degli obblighi derivanti da quel giudicato - nel pieno rispetto del principio del giusto processo. L'inammissibilità del ricorso discende da queste considerazioni e dalla granitica giurisprudenza di legittimità della Cassazione, che nel 2010 affermò che bastava un fondamento costituzionale indiretto per giustificare l'autodichia. Siano quindi accolte le conclusioni in atti.
Il Procuratore generale Apice dissente dalla lettura testè resa, visto che la sentenza n. 120 non ha lasciato intatte le cose a cinquant'anni fa: anche il cosiddetto pilastro del 2010 (dettato dalla sentenza n. 129 del 1981) merita riconsiderazione alla luce della pronuncia di maggio. In essa la Corte costituzionale non si è limitata a dichiarare inammissibile la questione di legittimità dei regolamenti parlamentari, ma ha anche espresso due pesantissimi obiter dicta. Per il primo, l'autonomia regolamentare, pur necessaria, non si può spingere fino a comprimere i diritti fondamentali dei terzi; per il secondo, ove tali diritti non siano rispettati, il problema si risolve col conflitto di attribuzioni. Se i limiti dell'autodichia non sono stati rispettati, il potere giurisdizionale è quello al quale sono stati "rubati" i poteri cognitivi e di regolazione della fattispecie dedotta in giudizio. Ecco perché può essere dichiarato ammissibile - con rinvio alla sezione semplice competente - il ricorso che il Lorenzoni ha avanzato ai sensi dell'articolo 111 comma 7 Cost.: sempre ammesso che l'autodichia non possa essere superata - laddove vi siano organi giudicanti che rispettino i principi di terzietà ed imparzialità della CEDU - essi restano dei giudici speciali e come tali sono sottoposti al sindacato nomofilattico della Cassazione, che la sentenza n. 120 non esclude affatto. In via subordinata, vi sono gli estremi per sollevare conflitto contro il Senato dinanzi alla Corte costituzionale: la Cassazione è comunque l'espressione massima del potere menomato dal regolamento che ha decampato dal suo ambito funzionale disciplinando ambiti di un altro potere, quello giurisdizionale.
Dopo che il Presidente del Collegio ha concluso la trattazione con le rituali parole "sarà deciso", si è avuta una curiosa "coda" in una successiva causa, affrontata dopo circa un'ora.
Era a ruolo numero 13 il ricorso per cassazione di alcuni dipendenti di ruolo del Quirinale, contro una decisione dell'organo di giustizia domestica che dava loro torto. Li difendeva il professore Cerulli Irelli, che - dopo la relazione (che aveva ricordato come il precedente rinvio della trattazione era stato originato dal desiderio di attendere le conclusioni della Corte costituzionale sul caso Lorenzoni, poi rese con la sentenza n. 120) - aveva da un lato evidenziato, per i rapporti di lavoro, la natura di "legge sostanziale" del regolamento dell'Organo costituzionale, e dall'altro aveva concluso per la natura speciale del giudice di autodichia, dichiarando che questa era senza dubbio più certa al Quirinale di quella dei giudici domestici delle Camere, perchè presieduta da soggetti esterni all'Organo costituzionale (Trotta).
Prendeva in proposito la parola, per il segretariato generale della Presidenza della Repubblica, il predetto avvocato Basilica, secondo cui vi erano tutti gli estremi per applicare - in questo come nel caso a ruolo numero 5 - il secondo obiter dictum della sentenza n. 120, come convincentemente ricostruito dal dottor Apice, e quindi la possibilità di sollevare conflitto alla Corte costituzionale. Gli atti di causa dimostrerebbero che la posizione del Senato non era ostile, quanto meno in via subordinata rispetto all'inammissibilità, al sollevamento del conflitto di attribuzioni ad opera della Cassazione.
Il Procuratore generale ha ribadito che le sue conclusioni, nel precedente come nel presente caso, sono, in via principale, per l'accoglimento del ricorso ai sensi dell'art. 111, comma 7, della Costituzione, con rinvio alla competente sezione semplice, e, solo in subordine, per il conflitto di attribuzione.

 Anche qui la trattazione si è conclusa, ad opera del Presidente, con il rituale "sarà deciso".

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